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 Nel marzo 2003, il governo cubano ha mosso la più severa offensiva contro il
  movimento dissidente dagli anni successivi alla rivoluzione del 1959. Delle
  schiere di dissidenti fermati, 75 sono stati sottoposti a processi sommari e
  rapidamente condannati a pene detentive da 26 mesi a 28 anni. Il giro di vite
  ha sorpreso molti osservatori convinti che Cuba
  si stesse muovendo verso un approccio più aperto e tollerante nei confronti
  degli oppositori: il numero dei
  prigionieri di coscienza
  era calato, sostituito da periodi di detenzione limitati, interrogatori,
  citazioni in giudizio, minacce, intimidazioni, sfratti esecutivi,
  licenziamenti, restrizioni alla libertà di movimento, perquisizioni o atti di
  aggressione fisica e verbale. Dall'aprile 2000, inoltre, il governo cubano
  aveva cominciato a rinviare le esecuzioni, tendenza sospesa nell'aprile 2003
  con l' esecuzione di tre uomini condannati per aver tentato di lasciare
  l'isola dirottando una nave da rimorchio, operazione nella quale nessuno era
  rimasto ferito. I fatti del marzo/aprile 2003 rappresentano un passo indietro
  per Cuba in materia di
  rispetto dei diritti umani.
  Le autorità hanno cercato di giustificare la
  stretta sui dissidenti denunciando le provocazioni e le aggressioni compiute
  dagli Stati Uniti. All'epoca, Amnesty International dichiarò che 75
  dissidenti condannati erano «prigionieri
  di coscienza» e chiese il loro rilascio immediato e incondizionato, poiché i
  reati contestati erano non violenti e rientravano nel legittimo esercizio
  delle libertà fondamentali, nei termini garantiti dagli standard
  internazionali. Le accuse mosse agli arrestati nell'offensiva del 2003 non
  erano quelle comunemente usate per sopprimere il dissenso, come «propaganda
  nemica», «mancato rispetto per le autorità», o «pubblici disordini».
  Piuttosto, si tendeva a enfatizzare reati per i quali il Codice penale cubano
  prevedeva pene più severe. La
  maggior parte dei dissidenti
  era accusata di aver violato l'articolo 91 del Codice penale, la legge 88, o entrambi. L'articolo 91
  prevede condanne da dieci a venti anni o la
  pena di morte per chiunque, «nell'interesse di uno Stato straniero, abbia
  compiuto atti finalizzati alla messa in pericolo dell'indipendenza dello
  Stato cubano o della sua integrità territoriale». La legge 88, inserita nel corpo legislativo cubano nel
  febbraio 1999 ma fino al 2003 mai applicata, prevede lunghi periodi di detenzione
  per chi sia trovato colpevole di sostenere la
  politica degli Stati Uniti, volta a «scardinare l' ordine interno,
  destabilizzare il Paese e distruggere lo Stato socialista e l'indipendenza di
  Cuba». A quanto si apprende
  dagli atti dei processi
  disponibili, le prove prodotte nei procedimenti del marzo 2003, in base alle
  quali sono state poi emesse le sentenze, comprendevano: pubblicazione di
  articoli o rilascio di interviste a mezzi di informazione finanziati dagli
  Stati Uniti o ad altri media sostenitori di posizioni critiche in materia di
  diritti economici, sociali o umani a Cuba;
  comunicazione con organizzazioni internazionali attive nella difesa dei diritti umani; contatti con
  enti o individui ritenuti ostili agli interessi di Cuba, come funzionari Usa presenti
  sull'isola o membri della comunità degli esuli cubani residenti negli Stati
  Uniti o in Europa; distribuzione o possesso di materiali come apparecchi
  radio, caricabatterie, attrezzature video o pubblicazioni della Interests
  Section americana (sede diplomatica Usa con base all'ambasciata svizzera
  dell'Avana, ndr); coinvolgimento in gruppi non ufficialmente riconosciuti
  dalle autorità cubane o accusati di avere svolto attività
  controrivoluzionarie, fra le quali: promozione di sindacati non ufficiali,
  associazioni professionali; istituzioni accademiche, associazioni di
  giornalisti o librerie indipendenti. Nel 2003, il governo cubano sosteneva
  che tali attività minacciassero la
  sicurezza nazionale e andassero perseguite. Amnesty International ritiene che
  tali attività costituiscano forme di legittimo esercizio della libertà di
  espressione, assemblea e associazione. A Cuba
  queste libertà incontrano severe restrizioni nella legge e nella pratica.
  Chiunque tenti di esprimere opinioni, promuovere incontri, dar vita a
  organizzazioni che contraddicano la
  politica del governo e/o gli obiettivi dello Stato può essere sottoposto a
  misure punitive come arresti, licenziamenti, maltrattamenti o intimidazioni.
  A Cuba è limitato anche il
  diritto a un giusto processo, poiché corti e procuratori sono sotto controllo
  governativo. L'Assemblea nazionale elegge il presidente, il vicepresidente e
  gli altri giudici della Suprema Corte del Popolo, oltre al procuratore
  generale e al suo vice. In più, tutte le corti sono subordinate all'Assemblea
  Nazionale e al Consiglio di Stato; fatto, questo, che suscita preoccupazione
  rispetto agli standard internazionalmente riconosciuti in materia di giusto
  processo e diritto a comparire davanti a tribunali indipendenti e imparziali.
  Lo stesso diritto dei
  dissidenti ad avere una difesa indipendente è minacciato dal fatto che gli
  avvocati sono nominati dal governo cubano e potrebbero quindi esitare a
  sfidare i procuratori o rigettare le prove prodotte dai servizi di
  intelligence dello Stato. Nel 2004 e all'inizio del 2005 sono stati
  rilasciati 19 prigionieri di
  coscienza, a 14 dei quali è
  stato garantito solo il «rilascio su condizione», che consentiva loro di
  scontare il resto della pena fuori dal carcere per motivi di salute, ferma
  restando la possibilità di
  tornare in prigione. Il governo cubano ha poi migliorato le condizioni di
  alcuni prigionieri di
  coscienza, trasferendoli in località più vicine alle loro case e garantendo
  check-up medici. A due anni dalla stretta del marzo 2003, malgrado i rilasci
  e i limitati miglioramenti, il numero totale dei prigionieri di coscienza
  dichiarato da Amnesty International si attesta a 71, due nuovi casi inclusi.
  È giunta anche notizia di maltrattamenti a opera di guardie carcerarie. Più
  di dodici persone sono ancora tenute in prigioni situate all'opposta
  estremità dell'isola rispetto alle città d'origine, fatto che rende molto
  difficili le visite dei familiari.
  Per le infrazioni ai regolamenti interni delle carceri, sono previste pene di
  lunghi periodi di isolamento, a volte in celle murate. I resoconti
  suggeriscono che le condizioni di prigionia in celle di questo tipo
  corrispondano a trattamenti crudeli, inumani e degradanti: si dice che le
  celle siano molto piccole (2x1 m), senza bagno né mobilio; che siano prive di
  acqua potabile, spesso infestate da ratti, topi e blatte; che i prigionieri non siano
  autorizzati a uscire, a ricevere visite, a fare esercizio fisico, che in
  alcuni casi non possano coprirsi con indumenti né avere coperte e lenzuola.
  Nel corso del 2004, almeno nove prigionieri
  sarebbero stati tenuti in celle murate per periodi tra due e quattro mesi.
  Nel 2004 l'allarme è nato da resoconti secondo i quali diversi prigionieri di coscienza non ricevevano
  adeguate cure sanitarie. Amnesty International riconosce che l'imposizione di
  un embargo commerciale da parte degli Stati Uniti d'America limita per Cuba la capacità di garantire ai prigionieri viveri e cure mediche in misura
  adeguata. Eppure, è stato anche denunciato che in alcuni casi i medicinali
  procurati ai prigionieri dai familiari, sono stati trattenuti dalle
  autorità carcerarie senza alcun motivo plausibile. Amnesty International
  chiede al governo cubano: di ordinare il rilascio immediato e incondizionato
  di tutti i prigionieri di
  coscienza; di assicurare lo svolgimento di un'inchiesta indipendente e
  imparziale, aperta sulla base delle denunce di maltrattamenti a opera di
  guardie carcerarie; di garantire la
  sospensione immediata dal servizio per i funzionari implicati e l'avvio di
  procedimenti giudiziari ai danni dei
  responsabili; di trasferire tutti i prigionieri
  di coscienza, soprattutto i malati, in carceri più vicine alle case delle
  loro famiglie; di applicare i Principi delle Nazioni Unite per la tutela di tutte le persone soggette
  a qualsiasi forma di detenzione o carcerazione e le Regole degli Standard
  Minimi per il Trattamento dei
  Prigionieri; di far sì
  che, in applicazione degli standard internazionali sui diritti umani, a tutti
  i detenuti sia garantito un giusto processo, oltre al diritto di avere un
  avvocato difensore; di revocare la
  legge 88 e normative simili che favoriscano l'arresto di prigionieri di coscienza e
  restringano illegalmente l'esercizio delle libertà fondamentali; di
  ratificare l'Accordo Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e
  Culturali, l'Accordo Internazionale sui Diritti Civili e Politici, il Protocollo aggiuntivo
  dell' Accordo Internazionale sui Diritti Civili e Politici e il Secondo Protocollo aggiuntivo dell'Accordo
  Internazionale sui Diritti Civili e Politici,
  finalizzato all'abolizione della pena di morte.  (traduzione di Maria Serena Natale) Corriere della Sera di domenica 20 marzo 2005 |