CHAVEZ & C.
«Davanti a noi abbiamo il diavolo, e lo batteremo». Ancora una
volta, il presidente venezuelano Hugo Chávez ha intonato il refrain davanti a
una ressa di fedeli sostenitori, nel cuore di Caracas. Lo ha fatto per
demonizzare il suo nemico numero 1. No, il «diavolo» che egli ha in mente non è
lo sfidante alle ultime elezioni presidenziali. Chávez,
nel solco della lezione dell’altro grande demagogo
latino-americano, Fidel Castro, scaglia il fuoco
della retorica contro gli Usa e il presidente Bush.
Non c’è angolo di mondo dove i demagoghi non siano tornati
in auge, assieme ai loro slogan strillati e ai martellanti proclami. In America
Latina, la Bolivia di Evo Morales
e il Messico di Andres Manuel López
Obrador hanno fatto quadrato attorno a Chávez, intenti a fomentare l’odio contro i diabolici gringos imperialisti. E in Medio Oriente, con
altrettanto fervore, l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad e l’Hezbollah di Hassan Nasrallah stigmatizzano a suon di proclami i demoniaci crociati yankee
e i loro complici sionisti. Quanto agli altri Paesi, se
il bersaglio può essere diverso, il linguaggio non è meno incendiario.
Il leader dei neonazi
tedeschi Udo Pastörs, il quale aveva definito
l’Europa «uno spazio culturale per bianchi» ha incassato lo scorso settembre,
presentandosi con il partito xenofobo Npd, una
vittoria alle elezioni regionali. L’ex vicepresidente del Sudafrica Jacob Zuma improvvisa, assieme ai sostenitori riunitisi
davanti al tribunale cui deve rispondere delle accuse di stupro, lo storica
canzone anti-apartheid Mshini Wami
(«Sono pronto ad andare in guerra»), con tanto di ritornello «Portatemi la mia
mitragliatrice».
Una retorica, si direbbe, svuotata di ogni
significato. Eppure, è bene non sottovalutare la
minaccia che questi nuovi demagoghi rappresentano, soprattutto rispetto agli
Usa. Irrilevante in America Latina, impotente in Medio
Oriente, ignorata in Africa e isolata in Europa, Washington sta affrontando la
crisi di politica estera forse più grave dalla fine degli anni ’70, quando la
Rivoluzione iraniana e l’invasione sovietica dell’Afghanistan minarono la
presidenza di Jimmy Carter. E questa nuova
generazione di sobillatori ne approfitta. Più
l’America diventa impopolare, più essi riescono
facilmente a procacciarsi sostenitori inveendo contro lo zio Sam.
Non siamo nuovi a situazioni di questo genere, e sappiamo quanto possano essere pericolose. Se un
presidente democraticamente eletto esprime scetticismo riguardo all’Olocausto e
minaccia di cancellare Israele dalla mappa del mondo, non è azzardato fare un
raffronto con il peggiore dei demagoghi: Adolf Hitler. Come quest’ultimo,
Ahmadinejad sa che l’antisemitismo è uno degli atout
del demagogo, un espediente infallibile per inoculare l’odio e il sospetto
verso il prossimo. Salvaguardando, intanto, la propria poltrona. Come Ahmadinejad, anche Hitler non
lesinò le esternazioni di disprezzo verso l’America, liquidandola quale «Paese
decaduto», inferiore alla Germania per razza e per
cultura e, ovviamente, in mano agli ebrei. E chi vorrà dare uno sguardo alla
lettera che il presidente iraniano ha recentemente indirizzato «al popolo
americano», data alle stampe settimana scorsa, ritroverà lo stesso refrain .
Non basta. Le condizioni attuali sono pressoché ideali per la genesi di
demagoghi assai pericolosi. Guerre e rivoluzioni, infatti, sono
da sempre un terreno fertile per la propagazione della demagogia. Non a caso, Ahmadinejad è un veterano della Rivoluzione islamica del
1979 e della guerra tra Iran e Iraq. Ora, ispirati da un inedito «realismo»,
gli Usa auspicano una collaborazione dell’Iran affinché l’Iraq non precipiti
nella guerra civile. E scusate se è poco. Ahmadinejad scalpita per assicurare all’Iran l’egemonia del
Medio Oriente, e l’ultima cosa di cui ha bisogno è farsi vedere intento a
prestare il fianco al Grande Satana.
Anche una forte instabilità economica può instillare
nelle masse la sete di vibrante retorica. È sintomatico, a tale proposito, che
nel corso degli ultimi vent’anni l’andamento
dell’economia sia stato molto più instabile in America
Latina e in Medio Oriente che negli Usa. Quando la base è
estenuata da fluttuazioni selvagge a livello di reddito, costo della vita e
sicurezza dell’impiego, tende a perdere fiducia nello status quo politico,
rimettendosi alle parole di leader messianici quali Chavez
e Morales.
Il reddito medio è un altro aspetto di cui tenere conto. Oggi, il reddito pro capite nei Paesi più poveri dell’America Latina e in gran
parte del Medio Oriente si avvicina a quello dell’Europa centrale durante il
periodo interbellico. (È un dato importante: secondo
alcune ricerche, la democrazia ha possibilità di sopravvivenza notevolmente
maggiori se il reddito pro capite supera i 6 mila dollari). L’analfabetismo
tocca verosimilmente percentuali ancora più alte rispetto al Vecchio
Continente in quello spaccato temporale. Di certo, è decisamente
maggiore il tasso di urbanizzazione. Esistono, quindi, tutte le condizioni
ideali per l’attecchimento della demagogia: le masse popolari, prese tra la
povertà lacerante delle società agricole di ieri e l’odierna, sfacciata
opulenza dei Paesi più ricchi, si trovano a vivere in città superaffollate, con
topaie fatiscenti al posto delle scuole. In un simile background , il più delle
volte il moderatismo ha vita breve. In meno che non si dica,
spunterà da qualche parte un «cane sciolto» intento, con vibrante retorica, a gigioneggiare negli orpelli presidenziali.
Tutto ciò aiuta a comprendere come mai, negli anni ’20 e ’30 del secolo che si
è appena chiuso, tanti demagoghi siano balzati alla ribalta del potere
nell'Europa centrale e orientale. Hitler fu soltanto
uno dei tanti che sposarono una retorica incandescente a divise colorate,
scarpe lucide e all’assoluta inosservanza delle libertà civili, con particolare
riferimento alle minoranze etniche. È questo il ganglio cruciale.
La storia insegna come le libertà individuali siano
fin troppo spesso la prima vittima del demagogo, specie laddove la pubblica
opinione è aizzata contro determinati nemici, interni o esterni. I demagogos dell’antica Grecia altri non erano che portavoce del sentimento popolare o,
nell’accezione peggiorativa, leader della plebe. Nell’uso che se ne fa oggi,
invece, il termine suggerisce il ricorso ad artifici retorici e la capacità di
infervorare la propria platea, solitamente con la promessa di voltare
drasticamente pagina. Di norma, il demagogo fa appello agli impulsi più barbari
del pubblico che ha davanti a sé. Di qui la tendenza a
individuare e stigmatizzare i «nemici del popolo».
La demagogia è antica quanto
Nel Diciassettesimo secolo, il termine assunse un’altra accezione. Se
Non tutte le rivoluzioni partoriscono demagoghi. Quella americana,
ad esempio, fu più dovuta a saggi legislatori e soldati improvvisati che non a
maestri di retorica. La cifra della Rivoluzione francese, invece, fu uno
smodato ricorso alle catilinarie. Demagoghi come Georges
Danton - che, noto anche come «Giove Tonante», fu tra
i protagonisti del periodo del «Terrore» - impressero, per più di mezzo secolo,
una connotazione negativa all’ ars oratoria .
Dal
Tuttavia, man mano che gli anni del «boom» industriale cedettero
il passo a una fase di deflazione e depressione, i demagoghi iniziarono ad
abiurare le proprie idee liberali. A destra come a sinistra,
dai socialisti agli antisemiti, i politici duri e puri capirono che il modo
migliore per incettare più voti era addossare la colpa dell’economia fluttuante
a determinati «nemici del popolo». In Austria, l’antisemita Karl Lüger incriminò la presunta
onnipotenza dei concittadini ebrei per i disagi subiti dalla piccola borghesia
viennese dopo il crollo della borsa del
C'è poco da stupirsi, dunque, che il periodo tra la Prima e la Seconda guerra
mondiale abbia rappresentato l’apogeo della demagogia
politica. A partire dal 1914, il pianeta è stato
vessato prima dalla guerra, poi dalle rivoluzioni e, da ultimo, dalla peggiore
depressione economica
Fortunatamente, i demagoghi sono il più delle volte assai più bravi a fare
promesse elettorali che non a realizzarle. Lo scorso settembre, il vice di Morales, Álvaro García Linera, invitò la
popolazione indigena della Bolivia a difendere il governo «con il vostro petto,
con le vostre mani, con il vostro Mauser» in risposta all’opposizione nella città orientale di Santa Cruz. Ma è un linguaggio che, se
decriptato, rivela un dato di fatto: il governo Morales
si è visto costretto a rivedere il piano di nazionalizzazione del settore
energetico (nonostante due settimane fa abbia messo a segno un’importante
riforma del settore agricolo). L’instabilità e l’arretratezza dell’economia
possono favorire l’ascesa al potere dei demagoghi. Ma,
una volta ottenuta la poltrona, possono anche rivelarsi un serio impaccio.
Il fatto, però, che Chávez e Ahmadinejad
abbiano tra le mani il rubinetto rispettivamente del 6
e dell’11 per cento delle riserve mondiali di petrolio dovrebbe farci fermare
un istante e riflettere. Forse, la più grave lacuna strategica dei demagoghi
nel periodo interbellico fu la scarsità di risorse energetiche. Di più, fu una
delle ragioni che li spinse a conquistare e sottrarre
ai Paesi vicini quello che Hitler definiva «spazio
vitale».
Gli odierni demagoghi, invece, hanno in pugno Paesi ricchi di petrolio. Il che potrebbe ridimensionare l’esigenza di nuove acquisizioni
territoriali. Garantendo loro, con il petrolio
assestato a 60 dollari al barile, ingenti flussi di denaro dai Paesi
importatori, come gli Usa, e la possibilità di puntellare i proclami con azioni
concrete. E non occorre essere esperti di
storia per capire che quella tra petrolio e aria fritta potrebbe essere una
miscela esplosiva.
Niall Ferguson
(Traduzione di Enrico Del Sero)
Corriere
della Sera di domenica 10 dicembre 2006