La Questione Morale Soffoca la Democrazia

 

Una decina di anni fa, il mondo ha assistito al dilagare di una inarrestabile ondata di corruzione. Da quando ha cominciato a soffiare, il vento della democrazia ha portato alla luce gli oscuri maneggi di inaffidabili dittatori e burocrati. Ai tempi della Guerra Fredda, dittature cleptomani si sono spesso trovate a barattare la fedeltà accordata a una delle due superpotenze in campo, con l'assenso ai loro atti criminali. Consuetudine che, una volta archiviata la spartizione del mondo in sfere di influenza, si è estinta. Parimenti, grazie alla rivoluzione del settore dell'informazione, la minima traccia di corruzione ai vertici del potere diventava rapidamente una notizia d'interesse globale. Da quando la società civile si è resa conto del coinvolgimento di un così elevato numero di politici - spesso in combutta con il mondo degli affari - la chiamata pubblica alla «guerra alla corruzione» è diventata un fatto naturale. Gli Stati hanno iniziato a formulare ordinamenti legislativi anti-corruzione, le corporazioni ad adottare rigidi codici di condotta e le organizzazioni non governative come Transparency International ad abbracciare la missione di «individuare e condannare» i Paesi coinvolti. Ovunque, un pullulare di agenzie internazionali di monitoraggio, con tanto di zar anti-corruzione. Dalla Germania al Perù alla Corea del Sud, una serie di scandali ha coinvolto ex capi di Stato apparentemente intoccabili, mentre in tutto il mondo uomini di governo e d'affari erano silurati o imprigionati. Sfidare alle elezioni un forte rivale già in carica, significava prevalentemente portare avanti una campagna alla «mani pulite», e additare l'avversario come un corrotto esponente della vecchia guardia. Per quanti hanno combattuto in trincea, l'evento fondamentale di questa guerra resta la Convenzione contro la Corruzione delle Nazioni Unite, sottoscritta nel 2003 da oltre cento Paesi. Purtroppo, i rapporti dalla prima linea sono tutt'altro che incoraggianti. «Gli ultimi dieci anni sono stati assai deludenti - commenta Daniel Kaufmann, uno dei maggiori esperti delle dinamiche anti-corruzione. -. Molto è stato fatto, non altrettanto è stato ottenuto. Stiamo perdendo del tempo». Oggi la guerra alla corruzione mina le istituzioni democratiche, sostiene i leader sbagliati nella corsa al potere, distoglie l'attenzione della società dai problemi più urgenti. Troppo facilmente, la corruzione fornisce una diagnosi universale per i mali delle nazioni. Se solo potessimo arginare la cultura dell'accaparramento e dell'avidità, ci dicono, riusciremmo senza fatica a risolvere altri problemi difficili da affrontare. Per quanto sia vero che la corruzione corrode i sistemi politici, porre un freno a tangenti e finanziamenti illeciti non risolverà automaticamente i problemi più spinosi che affliggono la comunità. Questa infondata convinzione rischia di rendere più arduo, se non impossibile, ottenere il sostegno pubblico ad altri indispensabili interventi. Diventa impossibile, ad esempio, far passare le necessarie riforme al sistema tributario, a fronte di una opinione diffusa, che vede qualsiasi nuovo contributo pubblico inevitabilmente destinato a svanire in mani corrotte. L'ossessione della corruzione inficia il dibattito anche su altri problemi cruciali. Sistemi di pubblica istruzione allo sbando, episodi di malasanità o economie stagnanti, non possono competere con i titoli dei giornali dedicati agli scandali. Problemi, questi, che possono essere inaspriti dalla corruzione, ma che traggono origine da condizioni spesso indipendenti dalle pratiche di governanti disonesti. Persino nel caso in cui gravi mali sociali abbiano conquistato i primi posti nell'agenda nazionale, la battaglia contro la corruzione tende a monopolizzare il dibattito pubblico. Inevitabilmente, la percezione collettiva delle misure necessarie ad affrontare altre priorità nazionali è dominata dall'ossessione della corruzione. Il più grave danno collaterale provocato da tale ossessione è forse l'instabilità politica che essa rischia di generare. Gli elettori hanno già molti motivi per essere insoddisfatti della condotta dei loro leader. La maledizione della corruzione anima le aspettative irrealistiche dei cittadini rispetto alle misure necessarie a migliorare la qualità della loro vita e ad avviare il Paese sulla strada della prosperità. L'impazienza popolare, esacerbata dalla convinzione che tutti i detentori del potere stiano badando esclusivamente al proprio portafoglio, abbrevia incredibilmente i tempi che i governanti hanno a disposizione per ottenere risultati. Dal 1990, undici capi di Stato latinoamericani sono stati travolti da scandali o costretti a dimettersi prima del termine del loro mandato: tutti casi nei quali il fattore corruzione ha giocato un ruolo importante. Sebbene queste epurazioni fossero per lo più legittime, talvolta la corruzione si è rivelata un semplice pretesto per liberarsi di un presidente ormai debole; mentre l'arretratezza del Paese era spesso interpretata come l'ennesima conseguenza di una politica di governo corrotta. Il meccanismo non ha fatto che rinfocolare la convinzione che se gli elettori fossero riusciti a sbarazzarsi della cricca dei loro avidi governanti e a trovare un leader onesto, il progresso sarebbe stato una naturale conseguenza. Silvio Berlusconi in Italia, Hugo Chávez in Venezuela, Vladimir Putin in Russia, sono saliti al potere anche sull'onda del pubblico disgusto per la corruzione che li aveva preceduti. Eppure, tutti e tre i Paesi restano corrotti e in attesa del tanto agognato progresso. Non v'è alcun dubbio che la corruzione sia un flagello. Ma neanche possiamo ignorare che tanti Paesi che ne sono afflitti non stanno affatto affondando. Ungheria, Italia e Polonia, ad esempio, hanno saputo conciliare benessere e significativi livelli di corruzione; Cina, India e Thailandia non affondano, ma prosperano. Sarebbe di certo auspicabile che questi Paesi garantissero il rispetto della legge, facessero posto a magistrature oneste e indipendenti, e a sistemi di pubblica istruzione efficienti, ma si tratta di risultati, non di prescrizioni: progressi ottenuti a prezzo di duro lavoro, grazie a sforzi compiuti a tutti i livelli della società e che per lo più hanno richiesto decenni. Meglio tacere che limitarsi a consigliare ai Paesi in questione di scuotersi di dosso i legacci della corruzione, come fanno spesso investitori stranieri, politici, istituzioni multilaterali e noti giornalisti.

 

Moisés Naím  
direttore della rivista Foreign Policy

© Foreign Policy
(traduzione Maria Serena Natale)

 

Corriere  della Sera di venerdì 25 marzo 2005

 

PRIMA PAGINA