«QUESTA PROVA DI LIBERTA’ TERRORIZZA TUTTI I DITTATORI»

 

Professor Bernard Lewis, come storico (britannico ma con cattedra a Princeton, Usa), esperto di Medio Oriente, crede che gli americani comprendano appieno l'importanza del momento in Iraq?
«Primo punto: negli Stati Uniti regna un generale disinteresse nei confronti della storia. In inglese-americano si usa l'espressione "è storia", per indicare un fatto superato, ormai privo di importanza. Secondo: si registra una tendenza a non prestare attenzione alle altre culture. Resiste tuttavia in America una sorta di istintiva attrazione per ciò che è buono e giusto all'interno di una società, istinto che agisce sorprendentemente bene».
Per spiegare la necessità di restare in Iraq l'amministrazione Bush fa appello al nostro senso della storia, assicura che tra 10 o 20 anni saremo tutti più felici.
«L'argomento più stringente è lo straordinario successo del processo democratico in Iraq. E' un Paese che dopo decenni di dittatura in tempi relativamente brevi è giunto alle prime elezioni libere, nelle quali milioni di cittadini si sono messi in fila per votare rischiando la vita. Un test notevole. Si è poi tenuto il referendum sulla Costituzione e domani saranno scelti i membri del Parlamento. Il processo di democratizzazione ha avuto successo oltre le più rosee aspettative». Eppure c'è ancora chi teme che la democrazia possa produrre un risultato peggiore della situazione attuale. Il successo dei Fratelli Musulmani alle elezioni egiziane è un argomento a sostegno di questi timori.
«Il processo che porta alla democrazia non è rapido né facile. Esistono dei pericoli. Hitler prese il potere attraverso elezioni libere. Rispetto all'Iraq, non sarei tanto allarmato: la democrazia deve evolvere gradualmente. Ma i Fratelli Musulmani in Egitto rappresentano un effettivo pericolo: una volta al vertice, non lascerebbero il potere nello stesso modo in cui l'hanno conquistato, tramite libere elezioni».
Secondo alcuni, la forza della guerriglia irachena dimostra che l'intervento ha portato a un sistema peggiore.
«In Europa e in alcuni circoli Usa si teme che la democrazia non possa attecchire in Iraq. I tiranni che dominano la maggior parte del Medio Oriente temono il contrario e sono spaventati a morte. Quando si attacca una festa di nozze ad Amman, si è disperati. I terroristi sentono che stanno perdendo».

Crede che i mezzi militari possano portare ulteriori trasformazioni nella regione? In Siria? In Iran?

«No, l'intervento porterebbe le popolazioni a schierarsi compatte a sostegno dei loro regimi. Con un aiuto discreto e limitato, le opposizioni iraniana e siriana possono fare da sole».
È fiducioso sulla possibilità di cambiamenti positivi in Medio Oriente?
«La mia è una posizione di cauto ottimismo. La situazione in Iraq è migliore di quanto emerga dai media. La vita degli iracheni è enormemente migliorata: libertà di stampa, conquiste economiche e sociali...».
Che cosa abbiamo sbagliato in Iraq?
«Prima ne usciremo, meglio sarà, ma non possiamo darcela a gambe. Potremmo fare molto meglio nel passaggio dei poteri, nel coinvolgere di più gli iracheni, nel reclutamento e addestramento del personale di sicurezza. In diverse occasioni avremmo potuto evitare tutti questi problemi senza eccessive difficoltà. Nel '91 ci tirammo indietro in un momento cruciale».
Qual è la lezione?
«Il nostro compito non è creare la democrazia, ma rimuovere gli ostacoli e lasciare che siano gli iracheni a creare la loro democrazia. È ciò che abbiamo fatto in Germania, Italia e Giappone e che dovremmo fare in Iraq. Pare che ci siamo finalmente mossi in questa direzione».


Frederick S. Kempe
The Wall Street Journal pubblicato sull'edizione Europe il 13 dicembre
(traduzione di Maria Serena Natale)

 

Corriere della sera di mercoledì 14 dicembre 2005

 

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