NEW ORLEANS, CENTO GIORNI DI RABBIA

 

«Purtroppo l'inerzia è il "leit motiv" della risposta dei poteri pubblici al più grave disastro naturale della storia del Paese». Non sono parole dei giornali che, a 100 giorni dall'uragano Katrina, misurano con puntiglio ingegneristico le dimensioni del fallimento di un governo che, incapace di soccorrere le vittime nei giorni dell'emergenza, sta ora perdendo anche la partita della riattivazione dei servizi e del varo di un piano di ricostruzione di New Orleans. L'accusa viene dal giudice federale Stanwood Duval ed è contenuta in una sentenza che ieri ha imposto alla Fema, la protezione civile americana, di continuare a pagare gli alberghi dove ha ricoverato i senza-tetto per i quali non è stata ancora trovata un'abitazione fissa o mobile. L'Amministrazione aveva deciso di chiudere il programma il 7 gennaio prossimo.
Scusandosi per la disastrosa gestione dell'emergenza, pochi giorni dopo l'uragano George Bush aveva assicurato alla popolazione della Louisiana e degli altri Stati colpiti che il governo non avrebbe badato a spese, per quanto gigantesche potessero essere le cifre in ballo: il presidente aveva promesso non solo di riportare al suo splendore New Orleans con «uno dei più grandi sforzi di ricostruzione della storia dell'umanità», ma addirittura di sconfiggere la storica povertà di queste regioni.
Cento giorni sono pochi per fare un bilancio, viste anche le dimensioni enormi dei problemi, ma l'assenza di progetti di ricostruzione della città e - soprattutto - degli argini crollati e ora tamponati alla meglio, la mancata costituzione perfino di un «ponte di comando» per la gestione del dopo-uragano, fanno pensare a molti che la rinascita di New Orleans sia quanto mai incerta.
«Morte di una città americana» titolava qualche giorno fa il New York Times. E forse esagerava. Prima o poi la città verrà ricostruita. Ma ci vorranno molti anni (per ora non è nemmeno iniziata la demolizione degli edifici distrutti dagli incendi). Nel frattempo molti sfollati, che oggi pensano ancora di tornare in città, metteranno radici altrove: nuovi lavori, nuovi ambienti sociali, nuove scuole e amici per i figli.
E se, come appare sempre più probabile, il Congresso cercherà di non stanziare i 40 miliardi di dollari necessari per il solo rifacimento di argini e dighe, la New Orleans del futuro potrebbe rassomigliare a quella delle foto dell'inizio del '900: alture densamente costruite e zone più basse, quelle al di sotto del livello delle acque, sostanzialmente prive di abitazioni. «Il melting pot, lo straordinario crogiolo di razze e culture diverse che hanno reso New Orleans una città unica e inimitabile sarebbe perduto per sempre», sostiene uno studio del Centro ricerche demografiche dell'Università dell'Ohio. «New Orleans potrebbe diventare una città di ceti medi a maggioranza bianca» dice Laura Ann Sanchez, una delle ricercatrici. Questo perché i cittadini che dispongono di redditi più elevati sono quelli maggiormente in grado di resistere in una transizione che si annuncia molto lunga.
Già oggi chi è benestante ha cercato di non allontanarsi troppo dalle zone colpite, affittando un alloggio o trovando ospitalità presso parenti. Chi non ha mezzi ha dovuto invece accettare la destinazione decisa a tavolino da un funzionario pubblico: Houston o Dallas in Texas, ma c'è anche chi è finito a Boston o in California. Di tornare per ora non se ne parla. Anche perché fin qui solo una delle oltre cento scuole pubbliche è stata riaperta, mentre i servizi pubblici di trasporto funzionano al 10 per cento. E i poveri non hanno l'auto.
Molti di loro probabilmente finiranno per costruirsi una nuova vita in altre città. Paradossalmente potrebbe essere questa «emigrazione forzata» la chiave per far uscire dalla povertà una fascia sociale che a New Orleans ha sempre vissuto ai limiti della sussistenza. Ma, se ciò avverrà, sarà perché governo e Congresso non avranno rispettato i loro impegni di ricostruzione. Gli sfollati cominciano a capirlo e sono furiosi: all'inizio, nonostante il disastro dei primi soccorsi, si erano sentiti al centro dell'attenzione. Una grande gara di solidarietà, la rivincita dell'America «dal cuore grande». Anche quei giorni sono però finiti, mentre la Fema cerca di limitare le spese e il provvedimento che aveva sospeso il pagamento delle rate dei mutui di chi ha perso la casa è scaduto. Se la gente non riprenderà i versamenti saranno le banche locali ad andare in rovina.
Ma la maggioranza repubblicana del Congresso, che nei giorni scorsi ha faticosamente concordato un pacchetto di tagli delle spese federali da 40 miliardi di dollari, salvo poi decidere subito dopo sgravi fiscali per una cifra più che doppia, non intende assumere impegni su questo fronte.
Washington, insomma, sta diventando improvvisamente più parsimoniosa.
Alcuni parlano di atteggiamento razzista nei confronti di una città nera e di inerzia amministrativa studiata a tavolino dal governo per provocare un fenomeno di emigrazione forzata.
Ma nell'America di Bush che sta perdendo la sua proverbiale capacità di far funzionare i sistemi più complessi - basti pensare ai fallimenti della Nasa, della Cia o a quello del sistema sanitario - è probabile che questo sia principalmente il frutto dell'improvvisazione di un governo che sta prendendo l'abitudine «italiana» di premiare più l'appartenenza che la competenza. E della diffidenza del Congresso nei confronti di uno Stato, la Louisiana, storicamente inefficiente e con un triste primato in materia di corruzione.

 

Massimo Gaggi

 

Corriere della Sera di mercoledì 14 dicembre 2005

 

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