IL CORAGGIO DI SHARON

 

Un'organizzazione sociale non la si cambia cercando di cambiare la testa degli uomini che ne fanno parte, bensì rinnovandone gli statuti e sperando che il resto venga da sé. Così - cito a memoria - scriveva Hannah Arendt negli appunti per un libro sulla Politica che la morte prematura le avrebbe impedito di realizzare. La grande intuizione e il grande coraggio di Ariel Sharon stanno nell'aver rotto, sia nella teoria sia nella prassi, un tabù per i propri concittadini: l'intoccabilità degli insediamenti ebraici nei territori cosiddetti occupati dopo la guerra del 1967. L' intuizione risiede nell'aver capito che nessun leader politico israeliano avrebbe mai sciolto questo nodo del contenzioso israelo-palestinese unicamente contando sul consenso dei coloni e sulla compattezza della stessa popolazione di Israele (cambiando, cioè, la testa degli uomini). Persino Rabin, che pur ne aveva piena consapevolezza, non aveva avuto la forza di andare avanti. Il coraggio consiste nell'aver dato avvio al processo del loro ritiro - da Gaza, dalla metà di questo mese, e da una parte della stessa Cisgiordania, in un prossimo futuro - con una decisione volontaristica, quasi personale (sperando, cioè, che il resto venga da sé). C'è, inoltre, un terzo elemento che, all'intuizione e al coraggio, aggiunge una nota di moralità politica: il carattere unilaterale della decisione. Che è stata presa senza aver promosso la controparte palestinese a partner dell'impresa. Dunque, non «terra in cambio di pace e sicurezza», secondo l'antica formula negoziale laburista; bensì, la pace e la sicurezza come scommessa finale tutta interna alla politica israeliana, che pone la dirigenza palestinese succeduta ad Arafat di fronte alle proprie responsabilità. O sconfigge il terrorismo come strumento di lotta - sterile sotto il profilo politico, criminale sotto quello morale - o ne esce sconfitta di fronte ai suoi stessi concittadini. L'unilaterale decisione di Sharon apre un processo di revisione strategica, politica e persino morale anche fra i successori di Arafat e, più in generale, all'interno dell'intera classe dirigente, senza la quale non c'è futuro per lo Stato palestinese. Sarebbe, dunque, ora che l'Occidente rivedesse il suo giudizio su questo singolare leader israeliano il cui maggiore difetto - come gli rimproverava Ben Gurion - era soprattutto di voler fare sempre di testa sua, anche a costo di sbagliare. E di errori, in realtà, Ariel Sharon ne ha commessi, o gliene sono stati attribuiti, molti in vita sua: da quando, negli anni Cinquanta, era l'irrequieto capo della cosiddetta Unità 101, all'aver sacrificato, nella guerra del Kippur del 1973, troppi uomini per voler entrare a tutti i costi in Ismailia, dopo aver attraversato trionfalmente il Sinai, infine all'accusa - dalla quale è stato assolto dalla Commissione Herzog nel 1983 - di non aver mosso le sue truppe per impedire l'eccidio, da parte dei cristiano-maroniti libanesi, nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. Ariel Sharon è un uomo di destra che fa cose di sinistra. Forse per questo non è apprezzato dall'Occidente politicamente corretto come meriterebbe. Ma si è conquistato il rispetto e l'ammirazione anche dei suoi avversari in patria. L'auspicio è che, su di lui, si pervenga anche da noi a un giudizio più sereno e corretto. Con onestà intellettuale. Finalmente.

 

Piero Ostellino

 

Corriere della Sera di mercoledì 10 agosto 2005

 

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