IL CASO USTICA

ovvero

LA GIUSTIZIA NEL PAESE DI ALICE

 

Ma come, non ci hanno sempre detto che per commentare le sentenze occorreva prima attendere di conoscere, oltre al dispositivo, anche le motivazioni? E ora che abbiamo queste e quelle, tutti zitti? Si parla della sentenza relativa alla strage di Ustica, il DC-9 Itavia esploso il 27 giugno 1980 con 81 persone a bordo.

Le quasi seicento pagine firmate dai giudici della terza Corte d’Assise di Roma sono scivolate tra l’indifferenza dei più e il fastidio di qualcuno. Alla sbarra quattro alti ufficiali dell’Aeronautica Militare, accusati di attentato agli organi costituzionali con l’aggravante dell’alto tradimento. Due sono stati assolti con formula piena l’ex capo reparto Corrado Melillo e l’ex responsabile del SIOS, Zeno Tascio. Per l’ex capo di Stato Maggiore Lamberto Bartolucci e il suo vice Franco Ferri, scatta invece la prescrizione. Secondo i giudici, Bartolucci “fu reso edotto, all’esito dell’analisi svolta presso l’Itav, del fatto che le registrazioni del centro radar Marconi presentavano alcuni dati oggettivi inequivocabilmente significativi e comunque tali da imporre ulteriori approfondimenti e, ciò malgrado, giunse alla determinazione di non trasmettere all’esterno e soprattutto all’autorità politica qualsiasi informazione in merito a tali dati”. Poco importa che secondo i giudici l’azione del Governo non fu comunque decisa, e dunque la responsabilità si attenua e cade di fatto l’accusa di alto tradimento. Conta che Bartolucci, secondo la corte, era pienamente a conoscenza della potenziale rilevanza di tale omissione.

In sostanza, quello che si sostiene è che prima il governo non venne informato; poi non si attivò con efficacia. E ancira: l’azione dell’esecutivo non venne preclusa dalle omissioni dei militari. Quella sera inoltre c’era “almeno un altro velivolo, che incrociò la rotta del DC-9 in corrispondenza della zona del disastro”.

Aggiungiamo che il titolare dell’inchiesta ha prodotto documenti per un milione e ottocentomila pagine; che la sua sentenza di rinvio a giudizio, del 1991, è lunga 5.500 pagine, che Priore ha interrogato circa 2.500 persone, ha disposto rogatorie in mezzo mondo, utilizzato decine di periti, intercettato per tre anni i telefoni di una sessantina di persone. Più o meno, al contribuente questa inchiesta è costata circa 300 miliardi di vecchie lire.

C’è o no di che cercare di riflettere, ragionare, discutere?

E invece nulla, silenzio. Come se nulla fosse. E’ normale?

Di palo in frasca. Istruttivo, e anche deprimente, il dialoghetto pubblicato da “Repubblica” tra Antonello Caporale e Luigi Vitali, deputato di Forza Italia, relatore della norma che riduce la prescrizione, nota anche come “salva-Previti”. Ambisce a diventare sottosegretario agli Interni o alla Giustizia. Continui così, ci sono buone speranze. Ha evaso un po’ il fisco, ma niente paura: gli extra in nero sono stati condonati.

Racconta, Vitali, che Berlusconi ha chiamato per informarsi sulla qualità della salva-Previti: “Molti giornali scrivono che è una porcheria, tu che ne dici? Io gli ho risposto: guarda presidente che è molto meno porca di quel che si dica”.

Meno porca?

“Si sono fatte cose molto meno sostenibili di questa”.

Ad esempio?

“La Schifani.”

Il premier l’ha incoraggiata?

“Vai avanti, così mi ha detto.”

Evviva davvero questo è il paese di Alice. Dove tutto è rovesciato, e dove il diritto appunto è rovescio.

 

GUALTIERO VECELLIO

 

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