HOTEL LIBERTA’, L’ISOLA DELLE DONNE VELATE


«Hotel Libertà»: per caso, o per allusiva astuzia femminile, è stato impiantato qui il quartier generale dei Giochi Islamici Femminili, un gineceo di 26 piani, a pochi chilometri dal centro di Teheran. È una torre extraterritoriale nei confini un po' misogini della sharia. Una zona franca, che si chiama Hotel «Azadì»: in persiano, appunto, «Libertà». Le olimpiadi per sole donne, tutte velate ma non tutte obbligatoriamente musulmane, si piegano in apparenza all'apartheid tra i sessi. Certo, assecondano le regole, rispettano i precetti, escludono eccezioni: nessuna atletica chioma ondeggerà impudica e impunita al vento, da qui a mercoledì prossimo, giorno di conclusione dei Giochi. Che, altrettanto seriamente, dimostreranno quanto siano numerose e incontrollabili le vie di fuga dalla segregazione. Al pianterreno del grattacielo nessun capo femminile è scoperto, ma tutti i capi sono donne; e gli uomini, fattorini, autisti, impiegati, obbediscono a perentori ordini in persiano. Dal secondo piano in poi, dove nessuna presenza maschile è formalmente ammessa, cadono i veli. Si è fra donne, certo. Ma tra donne di 40 nazionalità diverse. Donne che si parlano, che discutono in ascensore, che si scambiano impressioni e indirizzi di posta elettronica. Donne che imparano. Non tanto a tirare meglio con l'arco o a correre più veloci. Imparano a conoscersi. Scoprono, per cominciare, di non essere nemiche, come vorrebbero i loro governi. Nella hall, Sara, la manager americana, sta cercando la collega della delegazione irachena, per stringerle la mano. Ray, la campionessa libanese di tiro con carabina, studia pensierosa le avversarie siriane, allineate elegantissime e silenziose sul divano di fronte. Finché non legge, sul pass della sua dirimpettaia, un nome quasi uguale al suo «Raye». Sono due ragazze della stessa età, amano lo stesso sport, parlano la stessa lingua. Non è la ruggine tra i rispettivi Paesi a impedire uno scambio di sorrisi. Le afghane si stringono in ascensore per far spazio alle russe. Che fanno colazione vicino alle georgiane. Forse, a unirle, è davvero quel vituperato fazzoletto che tutte sono costrette a stringere attorno ai capelli e che, il primo giorno, è davvero molto coprente, attento a non lasciar sfuggire neppure una ciocca. Ma poi lentamente si scioglie, come i rapporti umani. Per non parlare di quelli femminili. Spuntano mèches bionde e perfino turchine, rompono il ghiaccio iraniane e irachene, che sì, ricordano di essere state in guerra, ma all' epoca erano appena nate. E' palpabile la potenzialità dirompente di questo consesso femminile, ufficialmente impegnato a dirigere le squadre, organizzare gli allenamenti, discutere gli incontri e litigare sugli arbitraggi: come è accaduto ieri mattina, a una delle prime partite di calcio indoor (al coperto). Si fronteggiavano le inglesi e le irachene. Che ne sono uscite vittoriose, come nemmeno nei peggiori incubi di Tony Blair, su altri, non lontani terreni. «Gli arbitri hanno sbagliato - protesta Yolandy Taylor, l'allenatrice inglese, in ascensore -, parlavano solamente arabo, non vedevano i falli commessi dalle irachene, ci hanno fatto perdere dei punti e le hanno infine favorite. Non è giusto, stiamo pensando di lamentarci ufficialmente». Come la mamma di Ray, la più forte tiratrice libanese: il suo fucile, un prezioso Beretta, è stato bloccato 24 ore prima alla dogana dell'aeroporto di Teheran. Peggio, pare proprio sparito: «Dovranno vedersela col mio governo, se il fucile di mia figlia non salta fuori», avverte la signora Bassil, che oltre a gestire un ristorante a Kaslik, nord di Beirut, è la grintosa allenatrice di Ray. La fuoriclasse libanese è comunque fortunata, rispetto alle tiratrici irachene. Lei, perlomeno, un fucile (anche se attualmente disperso), ce l'ha. La squadra nazionale delle tiratrici, arrivate con un viaggio di 25 ore da Bagdad, dispone di un fucile in sei. Il secondo, che completa il patrimonio balistico di tiro (sportivo) iracheno, è rimasto con i 18 campioni maschili: «E al ritorno dovremo restituire loro anche questo - sospira Ban, 34 anni, al suo ultimo exploit agonistico -. Ho deciso: dopo questi Giochi, mi ritiro. Ho cominciato a 11 anni, su consiglio di un amico. Sembrerà strano, ma sparare mi rilassa. Mi ha aiutato a sopportare le guerre, e i bombardamenti continui, che c'impedivano di dormire e di pensare ad altro. Il suono del mio fucile era molto leggero, un sibilo appena. Ma adesso non ho più neanche quello, per allenarmi». Una buona carabina, italiana o tedesca, costa sui tremila dollari, se ci si accontenta di un modello del 2000; il doppio, se si vuole il più recente. «Abbiamo il petrolio in Iraq - dicono le atlete -, i soldi ci sarebbero. Ma vanno tutti al governo». Per sparare certo, ma non pallini da gara. La tristezza dura poco all'Hotel Libertà: c'è da mettersi in posa per la foto sul pass, c'è da correre alla cerimonia dell'alzabandiera e agli allenamenti, in uno svolazzare di scialli, sciarpe e fazzoletti che finalmente finiscono in un angolo della palestra, al riparo da occhiate maschili. Salvo al centro di tiro con l'arco, al poligono di tiro con fucili e pistole e al golf, gli unici sport che lasceranno una traccia fotografica o televisiva di quest'olimpiade islamica, con la cerimonia inaugurale e finale. Dove donne e atlete torneranno a nascondere i capelli. Scende la notte nei corridoi dell'Azadì, si diffonde musica tutta muliebre: un cocktail afro-arabo-asiatico. Dovrebbero dormire da un pezzo le atlete, alla vigilia delle competizioni. Ma è per stanotte, e poche altre, a Teheran, la libertà.

 

Elisabetta Rosaspina

 

Corriere della Sera di sabato 24 settembre 2005

 

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