MEGLIO DIRE DECLINO

 

Anche al di là delle più recenti e torbide vicende finanziarie, qual è lo stato delle cose in Italia? Il disordine, d'accordo, non è imputabile solo all'inefficacia e alla precarietà del governo in carica, frastornato da troppe discordie al pari dell'opposizione. Certo, assistiamo a una paradossale contesa tra debolezze più che forze politiche. Ma causa decisiva dell'ingovernabilità è il dissesto dei conti pubblici, che favorisce ogni fuga dalla realtà e «viene da lontano», come prova l'Intervista sul non-governo di Ugo La Malfa, pubblicata nel 1977. Egualmente, viene da lontano l'arretratezza di servizi come i trasporti pubblici e delle infrastrutture civili. Ora sullo scenario, oltre alle traversie dell'industria privata fallimentare da Cirio a Parmalat, gravano la generale perdita di produttività e competitività nel commercio estero, così come l'insufficienza della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica. È insorto a questo punto il caso degli abusi o intrighi bancari, fino a investire la credibilità della stessa Banca d'Italia, che ripropongono una clamorosa «questione morale». Ma non è tutto. Appare anche manifesto un «diffuso torpore», secondo la definizione del presidente Ciampi. Questa società disorientata, che oscilla tra spensierato fatalismo e rassegnato pessimismo, sembra ignorare che in troppe faccende l'indulgenza e l'autoindulgenza non sono più sostenibili. Mentre il prodotto interno è quasi fermo, il capo del governo forse come consolazione ha stimato che il 40 per cento dell'economia sarebbe «sommerso». E poi, ecco un esempio tra i tanti casi di costume sociale alla deriva. Lo Stato retribuisce gli 11.500 forestali assunti dalla regione Calabria, mentre in Lombardia ne bastano 450? Affiorano scarse obiezioni, come se l'occupazione artificiale fosse un ragionevole «ammortizzatore sociale» o un serio aiuto alla regione più povera. Non è un episodio isolato. Dinanzi alla casistica di simili assurdità maggiori o minori, con le quali è da raccogliere un'enciclopedia, non si può rispondere con generici appelli all'eticità dei comportamenti. E fra le cause primarie d'ogni fragilità della società malandata, rimane l'indifferenza o l'indulgenza con la quale viene subìto il miserevole stato della scuola. Come sul Corriere ha denunciato Ernesto Galli della Loggia, questa società «ha lasciato andare in malora la scuola elementare e il liceo, che erano il fiore all'occhiello del suo sistema d'istruzione». Su Repubblica, Mario Pirani ha descritto i vizi d'indulgenza irresponsabile incline a trasformare persino lo scolaro delle classi elementari nel «cliente che ha sempre ragione». Anzi ora il già garantito «diritto allo studio» s'è trasformato nel «diritto al successo formativo», mentre l'insegnante vede imputare a una sua presunta incapacità ogni voto severo. Dunque, indulgenza e disimpegno. «Così va oggi la scuola, non così andrà però la vita». In quanto all'istruzione universitaria, fra corporativismi e nepotismi rimane il «valore legale del titolo di studio» per ogni laurea, oggi disponibile anche su materie inconsistenti. Ma nessuno, tra chi decide, alza il sopracciglio. Tutto sommato, si può definire declino lo stato delle cose in Italia? L' espressione suona sgradita, ma potrebbe sferzare gli animi spensierati o intorpiditi. Dopo tutto, è d'origine classica. Cicerone usava la formula inclinata res publica. Adesso quella sola e inquietante parola, declino, sarebbe forse utile come richiamo severo al risveglio, dopo il prolungato lassismo. Cambiare indirizzo, anzitutto nella mentalità collettiva, sarebbe in ogni caso indispensabile.

Alberto Ronchey

 

Corriere della Sera domenica 21 agosto 2005

 

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