LE FRONTIERE DEL JAZZ E QUELLE DEGLI STATI

 

“Non si recinge l’aria”  Gianni Bella

 

   Il sassofonista Sean Bergin ricordava un leggendario batterista sudafricano, Dick Xhosa, che quando la session si faceva particolarmente infuocata gli urlava: “Blow man blow!!! If you make a mistake, I make it with you” (suona uomo suona, tanto se sbagli, sbaglio insieme a te). “Gave you all the freedom in the world” (ti dava tutta la libertà del mondo) aggiungeva giustamente Sean. Quando si improvvisa, un errore “assecondato” cessa di essere tale, perché nessuno si accorge più che è, per l’appunto, un errore. L’episodio spiega efficacemente, mi pare, che il jazz vive di reciprocità, e naturalmente di relazione. “Non si può improvvisare da soli”, notava Derek Bailey, che di improvvisazione se ne intende. Da soli si studia, o si compone. Composizioni vanno considerati perfino capolavori come il Picasso di Coleman Hawkins, o le opere solitarie di Thelonius Monk. Perché in assenza di partner il musicista ha il controllo pieno di quanto sta facendo e viene a mancare l’alea, l’imprevedibile, quindi il fondamento dell’improvvisazione.

   I musicisti queste cose le sanno bene. Gli stati no.

   Han Bennink - cui dedichiamo questo mese inserto e Cd – è diventato, negli ultimi anni, piuttosto popolare negli Stati Uniti e le sue visite in quel continente si sono fatte sempre più frequenti. In futuro si dovranno probabilmente diradare. Come mai? Perché nella culla del jazz non è facile suonare jazz per chi proviene da altri Paesi. O meglio: rischia di essere più costoso che profittevole. Infatti la richiesta di un visto di lavoro temporaneo, che negli Stati Uniti è sempre stata macchinosa, con l’avvento dell’iperliberista governo di George W. Bush si è fatta ancor più vessatoria: quanto di più protezionistico si sia visto dai tempi della “dottrina Monroe” (l’America agli americani”, primi anni del XX secolo).

   Il rilascio del visto richiede più di sei mesi, un tempo impensabile per un club di jazz, che di solito decide la sua programmazione tutt’al più con tre-quattro mesi di anticipo. Così, diviene quasi obbligatoria la procedura d’urgenza: costo tra gli ottocento e i millequattrocento dollari, cui si aggiungono una lunga lista di balzelli – dall’impronta dell’iride alle spese postali di consegna del visto – e una serie di domande e documenti (ivi compresi l’entità e gli estremi del conto bancario) che farebbero impallidire qualsiasi garante della privacy.

  Per contro, quando gli statunitensi vengono a suonare in Europa si vedono applicare trattamenti fiscali e previdenziali di assoluto favore: un’interpretazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni talmente elastica da far sì che per loro compenso lordo e netto coincidano. Quel concetto di reciprocità espresso da Dick Xhosa – così fondamentale nel jazz (e del tutto condiviso dai musicisti) – pare non applicarsi al mercato.

   Un atteggiamento non nuovo, visto che un commentatore certo non sospettabile di antiamericanismo quale Sergio Romano ricordava in un’intervista come nel 1944, “addirittura nei giorni successivi alle fine del conflitto, fu chiaro che negli Stati Uniti si sarebbero battuti per entrare nel mercato culturale con una proprietà delle fiches sproporzionata rispetto agli altri giocatori”.

   E siccome all’ottusità burocratica non v’è limite, gli europei rispondono a quest’ingiustizia con un’altra speculare ingiustizia, come fanno quegli arbitri che cercano di rimediare a un errore con un altro errore. Infatti il sito del gruppo “rock patafisico” Pere Ubu ci avverte che “governi di Germania, Olanda e Belgio stanno imponendo tasse antistranieri, mirate a escludere le influenze non bianche e non locali”. Non siamo riusciti a saperne di più, ma comunque è un altro indizio di un clima poco salutare. Che nell’epoca della globalizzazione e della libera circolazione delle merci si impongano limiti alla circolazione delle idee – ché questo è ciò che portano in giro i musicisti – pare antistorico e pure antieconomico. Anche perché il valore mercantile delle idee è fra i pochi destinati a moltiplicarsi sempre più in futuro: su di esse – buone o cattive che fossero – ha fondato il proprio impero l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, non sul carbone o sull’acciaio, ricchezze di secoli passati.

 

Filippo Bianchi

 

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