IL CITTADINO E LA SALUTE,

TRA LIBERTA’ E RESPONSABILITA’

 

     1. Già due secoli orsono Cesare Beccaria, nell’opera Dei delitti e delle pene, metteva in relazione la scelta dei cittadini di limitare attraverso le leggi la libertà di cui per natura ogni individuo dispone col perseguimento del bene di ciascheduno, posto che una libertà non soggiacente a regole (oggi diremmo a vincoli solidaristici) risulterebbe del tutto vana o comunque incerta.

Occorre, pertanto, un’idea del bene – anche nell’ambito del pluralismo democratico - onde poter conseguire livelli sostanziali di libertà.

Beccarla parlava in rapporto alla definizione di determinate condotte, da parte del legislatore, come fatti illeciti, ma l’approccio è generalizzabile. Ne sanno qualcosa tutti gli individui deboli sotto il profilo economico del nostro pianeta, i cui diritti di libertà – specie ove siano coinvolti sistemi giuridici di Stati poveri a ingiustizia diffusa – sono spesso formalmente riconosciuti, ma restano in realtà lettera morta perché non sussistono corrispondenti doveri in capo a coloro che, nel mondo, potrebbero agire secondo il bene di tali persone, rendendo i loro diritti, almeno in parte, effettivi.

Senza un’idea in qualche modo condivisa del bene, sulla quale costruire diritti e doveri nell’ambito dei rapporti intersoggettivi si ha dunque, formalmente, maggiore libertà per ciascun individuo, ma ciò, sostanzialmente, beneficia solo i più forti: e il problema non si risolve dichiarando che l’esercizio della libertà può spingersi soltanto fino al limite in cui ostacolerebbe l’esercizio della libertà altrui, posto che l’equilibrio dei rapporti fra soggetti diseguali nell’accesso alle risorse non si stabilisce di certo, ve n’è un’ampia esperienza, in modo equo.

Senza forti dimensioni solidaristiche, la tutela della salute finisce per essere, quantomeno, una tutela diseguale, cioè una tutela che preclude di fatto a molti di usufruire dei presidi più validi: e forse, abituati alla libertà pur imperfetta che deriva da una tutela legalmente imposta e lusingati dalla prospettiva di una maggiore libertà d’iniziativa individuale nella tutela degli stessi beni fondamentali, non riflettiamo abbastanza su cosa significherebbe tornare ad accettare che questi ultimi, legittimamente, possano essere salvaguardati con intensità diverse.

Ove manchi, del resto, un confronto serio, secondo la logica migliore della democrazia, sul bene della persona, il mero riferimento formale alla manifestazione contingente di qualsiasi libera volontà rischia di lasciare ciascun individuo, anche quello ricco di mezzi, drammaticamente solo nel rapporto con la medicina, con esiti complessivi, cercheremo di argomentarlo, tutt’altro che auspicabili.

 

2. Vorrei dunque segnalare, in primo luogo, un rischio. C’è una pressione molto forte sulle famiglie e in genere sui cittadini a trasferire risorse dalla gestione comunitaria a quella individuale, che si traduce in consumo o in investimento finanziario. Simile tendenza è sovente segnata dal rimando alla nozione di libertà: avrai maggiore libertà se sarai gestore diretto di una quota più consistente della ricchezza che concorri a produrre. Ciò implica, rispetto al nostro tema, la spinta a mettere sul mercato risorse, se così si può dire, immobilizzate per fini di gestione comunitaria del rischio salute, riconducendo in maniera più o meno accentuata tale rischio alla gestione personale; non senza il convincimento suggestivo secondo cui tu stesso rappresenti il soggetto più idoneo a valutare, escluse intromissioni esterne, quali siano le esigenze di tutela a te davvero necessarie e le modalità più adeguate, fra quelle offerte dal mercato, per soddisfarle.

Io ho il timore che sovente il cittadino tenda a non comprendere quale perdità di libertà possa invece celarsi, ove estremizzata, in un’ottica consimile. Il che, beninteso, non implica affatto negare il bisogno di razionalizzazione del sistema sanitario.

Abbiamo davvero considerato a sufficienza – salvo trovarci fra i pochissimi che possono contare su loro risorse individuali per affrontare ogni bisogno – quale grande conquista di libertà sia insita nel poter far conto sulla gestione comunitaria dei rischi concernenti la salute, delle esigenze fondamentali relative all’istruzione dei figli, del sostentamento in età avanzata?

La libertà che ne deriva è formidabile (anche se la suddivisione degli oneri incide sull’immediato potere d’acquisto), perché quando so che l’impegno economico è connesso a evenienze esistenziali cardine risulta coperto in senso comunitario, tutte le altre mie scelte, anche economiche, possono essere più serene e dunque più libere.

Perfino la scelta di destinare, ad esempio, parte delle risorse personali a fini umanitari potrà essere ben più tranquilla se, comunque, i grandi rischi e alcune esigenze basilari della vita sono a loro volta coperti in senso solidaristico. Se invece so che nella risposta a simili sfide posso contare solo sulle mie risorse e sulle mie capacità di gestirle (dunque, di selezionare circa la soddisfazione degli stessi bisogni fondamentali e di essere buon profeta nella scelta fra livelli diversi delle coperture assicurative) vengo a trovarmi inevitabilmente in una situazione di precarietà, cui spesso si reagisce o secondo stili di vita per così dire cautelativi, nell’ambito dei quali il massimo bene diviene l’accumulo delle ricchezze, o secondo la logica dissipativi del consumismo coltivato fino a quando le cose vanno bene, in antitesi con qualsiasi seria progettualità.

A me pare che ciò comporti una forte contrazione della libertà sostanziale e che su tutto questo debba maggiormente riflettersi.

Di certo una visione meramente economicistica potrebbe vedere con favore l’idea che entità significative di ricchezza vengano dirottate sul consumo, e comunque su modalità di utilizzazione e riutilizzazione delle risorse ben più rapide rispetto alla loro destinazione per fini di tutela pubblica della salute. Ma un simile trend rischia di non essere affatto funzionale al bene effettivo e alla stessa libertà dei consociati: continuiamo ad avere bisogno, in effetti, di un corretto equilibrio fra risorse socialmente destinate alla salvaguardia dei diritti fondamentali di ogni uomo e risorse che possiamo affidare senza particolari remore a una pura gestione individuale, evitando che il primo dei due ambiti sia gravato da una sorta di riserva mentale che lo ricollega in modo semplicistico a visioni illiberali del rapporto tra pubblici poteri e cittadino.

 

3. Vorrei ora considerare l’incidenza nient’affatto secondaria che il tema della libertà può avere nella prassi medica di ogni giorno. Anche rispetto a quest’ultima, infatti, appare opportuno riflettere sulla circostanza per cui il mero riferimento alla scelta individuale, vale a dire al consenso (il quale pure ha un’importanza cardine, se correttamente inteso, nella medicina moderna), non può risolvere tutti i problemi.

A ben vedere, appare oggi in crisi la pertinenza stessa del dibattito in materia bioetica, poiché tale dibattito tiene sì conto del pluralismo oggi esistente in fatto di sensibilità ed esperienze culturali, ma presuppone altresì la condivisione dell’impegno a ricercare insieme, pur con fatica, quella che potremmo definire un’oggettività del bene da perseguirsi in ciascuna situazione.

Radicalizzare il rimando al consenso, rendendolo criterio orientativo assoluto, corrisponde invece a un altro modello di società: a una società che ritiene di non avere più proprio nulla da condividere e che dunque non ritiene utile nemmeno discutere su temi di ordine etico, in quanto ove sia in gioco una scelta che rilevi sotto il profilo etico potrebbero recepirsi soltanto manifestazioni della volontà individuale, secondo una visione rigidamente soggettivistica: col problema di reperire un fondamento, inevitabilmente molto debole, che consenta di vietare condotte dannose, in via immediata, dei diritti altrui (ma spesso, in quest’ottica, solo dei diritti di chi abbia un effettivo potere contrattuale).

A questo proposito va posto in evidenza che quest’ultimo modello non coincide per nulla col modello di società democratica nata più di due secoli orsono in epoca illuministica, non a caso incentrato, malgrado le degenerazioni giacobine, sulle dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Nella visione dell’Illuminismo, dunque, la valorizzazione della democrazia e della laicità non implicava affatto indifferenza verso dimensioni etiche socialmente condivise. Implicava, piuttosto, che non vi fosse un’autorità precostituita abilitata a definire da sola regole e valori vincolanti, secondo il convincimento che alla definizione degli stessi – in particolare dei principi costituzionali – si potesse e si dovesse giungere attraverso il dialogo.

In questo senso, la società è chiamata a ricercare ambiti di consenso (tendenzialmente unanime rispetto alle norme delle costituzioni, maggioritarie rispetto alle norme ordinarie) in base ai quali organizzare i comportamenti socialmente significativi. Ovviamente, poi, la coscienza personale sarà sempre chiamata a interrogarsi al di là del livello di convergenza normativa che si sia realizzato sul piano sociale.

Quanto s’è detto ha rilievo, come si accennava, pure per la medicina. In radice, l’interrogativo è se la medicina sia ormai da intendersi, per così dire, come pura tecnologia, in modo tale che il medico sia considerato, puramente e semplicemente, come portatore di cognizioni e abilità particolari, disponibili in linea di principio per qualsiasi modalità di utilizzazione, avvero se il medico stesso debba pur sempre essere considerato esponente di quella che resta anche una scienza umana, con una sua metodologia, una sua deontologia e un suo bagaglio, pur faticosamente condiviso, di principi (bio)etici.

E’ un interrogativo non banale, onde evitare, fra l’altro, di accedere con leggerezza a prospettive molto pericolose di cosiddetta medicina cautelativa.

Orbene, se il consenso informato si sostanzia in un dialogo tra medico e paziente per la ricerca del massimo bene di quest’ultimo, allora esso rappresenta senza dubbio una grande conquista, posto che proprio nell’interazione fra medico e paziente, fatta di ascolto, delucidazione, incoraggiamento, quel bene si rende al meglio perseguibile, tanto più in un mondo nel quale sono molte le fonti di conoscenza cui il malato stesso può accedere. Sotto questo profilo, in particolare, il medico sarà chiamato a illustrare non solo la sua proposta terapeutica, bensì l’intero spettro delle opportunità, anche altrove disponibili, che potrebbero risultare utili in una data situazione.

Altro sarebbe concepire il consenso, una volta escluso che si possa muovere da un’idea non meramente soggettiva di ciò che è bene per il malato, come presidio di reciproca autotutela giuridica del medico e del paziente. In tal caso il consenso richiesto dal medico diviene null’altro che il contratto attraverso il quale egli rende edotto il malato di tutti i possibili eventi avversi, anche i più improbabili, connessi alla prestazione terapeutica offerta, così che il malato ne accetti incontestabilmente il rischio. Del pari, la prestazione del consenso diviene per il malato, in questo quadro, mero strumento di controllo sull’attività medica. Il pericolo, evidente, è quello di un rapporto meramente negoziale fra il medico che offre sul mercato una prestazione e il cittadino che sceglie di usufruirne con tutti i possibili rischi, perdendosi il senso di una presa in carico, di una responsabilizzazione, del medico rispetto alla situazione complessiva del malato.

Ritenuto il bene del paziente una pura nozione soggettiva della quale il medico nulla può dire, né può farsi carico, la prospettiva finisce per essere quella di un contratto ad oggetto molto limitato, avallata dal riferimento riduttivo al rispetto di una libertà che il più delle volte, proprio per l’assenza della suddetta presa in carico, resta, in effetti, ampiamente disinformata.

Io credo che la nostra società democratica, laica e pluralista debba continuare ad avere il coraggio di confrontarsi onde poter condividere almeno alcuni elementi fondamentali della prassi medica. Del resto, rispetto alla grande complessità degli interrogativi concernenti l’utilizzazione delle nuove conoscenze e delle nuove possibilità tecniche d’intervento, coem pure rispetto agli effetti che dalle scelte effettuate deriveranno per il futuro del genere umano, ci troviamo assai di più, per così dire, sulla stessa barca di quanto talora non si voglia ammettere.

Non dimentichiamo, in questa nostra città di Brescia, le due pazienti minorenni, decedute, che pochissimi anni orsono non è stato possibile curare, nonostante un’indicazione medica univoca accompagnata da chance molto elevate di guarigione completa (si trattava di patologie oncologiche), e ciò anche per il ritardo dell’intervento giudiziario e per un certo clima culturale – s’erano mosse personalità di grido – proclive a sostenere un malcompreso concetto della libertà nell’approccio da parte delle famiglie alle scelte terapeutiche.

Non credo, francamente, che debba essere di questo tipo l’approdo del rapporto con la medicina nella società democratica di cui siamo parte e in cui tutti crediamo.

 

4. Vorrei applicare, pur succintamente, quanto sin qui sostenuto al dibattito sul tema dell’eutanasia.

La mia impressione è che il rischio reale, nonostante le discussioni in voga, non sia quello dell’accanimento, bensì quello dell’abbandono terapeutico. Ho ampiamente constatato, del resto, che i malati desiderano di norma il massimo dell’impegno medico e temono che non si rendano loro accessibili presidi potenzialmente efficaci. Temono di non poter usufruire, ad esempio, di un promettente controllo sperimentale (spesso hanno ben chiaro che l’unica chance è legata a una strada tuttora in sperimentazione, ma già sufficientemente attendibile), come pure di dover udire parole troppo gentili, motivate con l’intento di offrir loro, finalmente, una tregua dalle terapie, ma implicanti, lo sanno, il venir meno del rapporto sul quale finora avevano fatto conto. Non temono che il medico voglia fare troppo.

Sgombro subito il campo da possibili equivoci: non intendo affatto sostenere l’accanimento terapeutico, purché sia inteso in modo corretto (nei termini in cui non lo richiede la stessa riflessione etica della Chiesa cattolica): vale a dire quale intervento tale che i benefici terapeutici siano palesemente sproporzionati alle sofferenze e alle menomazioni che esso comporterebbe per il malato, ovvero tale che in fase immediatamente terminale privi il malato stesso della espressione ormai irripetibile di dimensioni fondamentali della sua personalità (possibilità di raccoglimento, di dialogo coi familiari, ecc.).

Desideravo piuttosto sottolineare il rischio dell’abbandono in rapporto alla definizione, quale ne sia la sede, di standard terapeutici per situazioni patologiche astratte, col pericolo che, fissato un livello ordinario d’intervento, ciò che si ponga al di là del medesimo sia proposto alla percezione dell’opinione pubblica come accanimento.

Non va infatti sottovalutata la possibilità che in un contesto sociale nel quale aumentano le prospettive di cura efficace in situazioni nel passato irrimediabili, specie con riguardo a milioni di anziani e a persone comunque non più in grado di assumere ruoli economicamente produttivi, si tenda a lasciar credere che, superato un certo standard d’intervento, tutto ciò che venga ulteriormente intrapreso sia da reputarsi contro il malato.

In altre parole, il rischio è che il dibattito libertario sull’eutanasia e l’enfasi sul rifiuto di un accanimento terapeutico concepito secondo confini assai incerti, di fatto coincidente con ciò che supera uno standard predefinito ed astratto di cura, finisca per rappresentare l’alibi onde lasciar crescere nel contesto sociale, per ragioni essenzialmente economiche, la disponibilità a limitare l’impegno ordinario nei confronti dei malati in situazioni di patologia avanzata o di cronicità.

Deve dunque essere chiaro che accanimento si ha solo nelle situazioni poco sopra richiamate (cui certo andrebbe dedicato ben altro approfondimento), riferite in concreto al singolo paziente e non a standard terapeutici fissati in generale.

 

5. In senso contrario all’eutanasia vorrei proporre, in particolare, alcune riflessioni conclusive, spendibili, credo, anche nel contesto della società laica e pluralista.

Possiamo far finta di non sapere, innanzitutto, che la ricerca psicologica di base evidenzia come la richiesta di morire, quando sussista, costituisce di regola un appello, che non coincide con la richiesta esteriore, rimandando, piuttosto, ad una problematica più complessa e globale? Ricordo come un noto primario di oncologia, attualmente direttore dell’Hospice don Gnocchi a Milano, il dr. Ghislandi, mi dicesse qualche tempo fa che una volta soltanto, in tanti anni, gli fosse capitata una simile richiesta, posta la cura che aveva sempre dedicato all’assistenza psicologica e palliativa del malato terminale.

Ciò considerato (valga ulteriormente l’ovvio rimando alle ben note ricerche di Elisabeth Kubler-Ross), ce la sentiremmo davvero di prevedere dal punto di vista giuridico che allorquando un soggetto non interdetto esprima, rifiutando le cure, l’intento di voler morire se ne debba, semplicemente, prendere atto (salvo poterlo dimostrare non capace in forza dello stato di sofferenza)? Si dirà: il personale sanitario, in tal caso, dovrà quantomeno discutere col malato, problematizzare, offrire assistenza. Ma, si noti, se ci si orienta a considerare assoluto il rilievo di ogni manifestazione della volontà e, dunque, ad abbandonare il principio di indisponibilità della vita, è coerente concludere che lo stesso impegno volto a distogliere il paziente dal proposito dichiarato sarebbe da intendersi come un abuso indebito della posizione di superiorità del medico, se non, addirittura, come una violenza privata. Perché il medico, in questa prospettiva, dovrebbe essere autorizzato a sindacare una già avvenuta manifestazione del volere?

Il venir meno del principio di indisponibilità della vita, dunque, comporterebbe di fatto il venir meno di qualsiasi impegno a favore del paziente – sul piano psicologico e, se del caso, in termini di medicina palliativa – non appena emerga una caduta di tensione nel medesimo verso le cure, cioè nel momento del suo massimo bisogno; comporterebbe, cioè, la preclusione di quello stesso approccio solidaristico alla sofferenza che, ove attuato, fa ordinariamente venir meno, come poco sopra si evidenziava, il rifiuto formale delle terapie.

Del resto, abbiamo adeguatamente riflettuto sulle conseguenze pratiche che avrebbero certe tesi estreme, le quali sono state sostenute, come quella che propone di escludere, in nome di una salvaguardia esasperata dell’autonomia individuale, l’applicabilità della giustificazione ex articolo 54 del codice penale (lo stato di necessità) nel caso in cui il medico, comunque, agisca per salvare una persona, o per evitarle un danno grave? Il venir meno di un simile ambito di salvaguardia per i sanitari implicherebbe uno spostamento radicale nella percezione del rischio rilevante da parte del medico: non più quello di perdere un paziente, ma quello di fare qualcosa che non sia rigorosamente contrattato con il medesimo. Non credo sarebbe un quadro auspicabile nei suoi effetti concreti.

Ancora: possiamo non tenere presente l’analisi molto pacata che fece l’associazione degli psicologi olandesi all’indomani dell’introduzione, anni orsono, della prassi di non promuovere l’azione giudiziaria  nei casi di eutanasia, date certe condizioni? Essi avevano posto in evidenza come l’apertura all’eutanasia volontaria mutasse il vissuto dei soggetti socialmente più deboli. Sebbene infatti la sanità pubblica avrebbe assicurato, ovviamente, anche per il futuro la tutela sanitaria di coloro che, comunque, non intendessero rinunciare alle cure, ciò, per così dire, non si sarebbe più potuto ritenere come la normalità, bensì pur sempre come l’effetto di una precisa scelta individuale, sulla base di un’alternativa prospettata dalla legge: con l’instaurarsi inevitabile di un interrogativo dirompente nella psicologia del soggetto debole, quello secondo cui forse la società si attenderebbe, rispetto alla prosecuzione delle cure, una scelta diversa (che potrebbe essere suggestivamente presentata, addirittura, quale scelta solidaristica al contrario, in quanto implicante la rinuncia a beneficiare dell’impiego delle risorse ingenti, tanto più nella misura in cui si affermasse l’idea, della quale abbiamo già discusso, che tutto sommato continuare a sostenere certi tipi di malati costituirebbe, comunque, accanimento).

Sono ancora una volta considerazioni che una società democratica ispirata al modello solidaristico non dovrebbe affrettatamente trascurare.

Un ultimo rilievo attiene alla funzione stessa del diritto, il quale nasce per un’esigenza di tutela delle situazioni deboli. I forti, in linea di principio, non hanno bisogno del diritto: esso infatti mette a disposizione del debole, o forse meglio delle situazioni di debolezza esistenziale, che possono riguardare pure i potenti, la risorsa dell’esistenza di una comunità civile. In tal senso, il diritto costituisce quella che potrebbe definirsi una riserva di impegno solidaristico per le situazioni più difficili, e in particolare per quelle di massima povertà esistenziale, quale può essere la malattia grave.

Ebbene, come si è sottolineato anche da parte di autori di area laica, appare troppo ambiguo che il diritto, chiamato per sua natura a rendere disponibile nei contesti summenzionati il massimo di impegno solidaristico, possa essere autorizzato a consentire di eliminare le situazioni stesse che gli chiedono di offrire un tale investimento di risorse umane ed economiche. Dunque, non ci può essere una relazionalità intersoggettiva sancita dal diritto che possa essere giocata per la morte, perché ciò contrasterebbe con l’essenza stessa del diritto: di un diritto che non abbia pretese di assolutezza, ritenendo di poter intervenire sulla vita e sulla morte, ma che si concepisca come strumento tenuto ad offrire, come or ora si diceva, il massimo di solidarietà possibile nella comunità civile in qualsiasi situazione della vita.

Credo, dunque, che vi siano valide ragioni perché la nostra società, nella ricchezza del suo pluralismo, continui a impegnarsi onde definire linee di comportamento fondamentali, sui temi di grande rilievo etico e dunque anche con riguardo all’attività medica, che possano essere condivise. E in quest’ottica credo che il principio stesso di indisponibilità della vita mantenga una precisa ragion d’essere anche in ambito laico, quale presidio onde garantire, fra l’altro, risposte autenticamente solidaristiche ai bisogno dell’individuo sofferente.

Non ritengo in particolare necessarie modifiche nel quadro dei principi giuridici rilevanti in materia, modifiche le quali facilmente condurrebbero ad effetti assai pericolosi. Piuttosto, il coraggio di una riflessione bioetica pacatamente condotta può costituire il terreno favorevole per un costante confronto circa la migliore valorizzazione attraverso quei principi della dignità di ogni uomo.

 

6. Mi si vorrà perdonare se faccio da ultimo riferimento alla circostanza, nota a qualcuno dei lettori, che la definizione di questo testo è venuta per me a collocarsi in giorni di poco successivi alla morte di mia moglie Gabriella, verificatasi dopo quasi sette anni e mezzo di costante impegno terapeutico. Lo faccio – col senso di una gratitudine profonda per l’impegno sanitario e la solidarietà di cui ha, e abbiamo, potuto beneficiare – perché le debbo una riflessione, forse pertinente al termine di questo contributo.

Gabriella ha risposto in maniera mi si dice inconsueta alle terapie, nonostante una situazione oncologica da anni molto grave. Ha tratto beneficio da una lunghissima serie di approcci terapeutici diversi e in alcuni casi sperimentali, ben oltre gli standard: ne ha derivato condizioni che le hanno permesso di vivere, sempre, in modo significativo, anche negli ultimi tempi; ha visto nella medicina, sempre, un’alleata. Davvero non vi è mai stato accanimento; del resto, quando percepiva approcci rinunciatari (ve ne furono, ma non li seguimmo, già anni orsono) le dispiaceva molto. Era estremamente grata, oltre che a tutti coloro i quali la curavano e l’assistevano, al Sistema Sanitario Nazionale, perché sapeva quanto fossero ingenti le risorse messe in gioco per le sue cure, e per la qualità delle sue cure. Più tardi ci siamo più volte chiesti se altrimenti tutto questo sarebbe stato possibile. Di certo non abbiamo rimpianto un maggiore spazio per i nostri consumi, perché ciò che il sistema di solidarietà civile di cui eravamo parte ci donava era, giorno per giorno, qualcosa di molto più grande, per noi e per i nostri giovani figli, di qualsiasi esigenza materiale.

 

Luciano Eusebi*

 

Professore straordinario di Diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza

 

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