UNA BUONA CAUSA,

ALCUNI BERSAGLI SBAGLIATI

 

Lo sciopero della dirigenza (medica e non) a sostegno del Servizio Sanitario Nazionale e per il rinnovo del contratto di lavoro, nonostante una ridicola schermaglia sulle percentuali, è perfettamente riuscito. Esso rappresenta con certezza una chiara manifestazione d’orgoglioso attaccamento all’organizzazione sociosanitaria pubblica e di protesta del personale contro la politica sanitaria (si fa per dire) del governo.

 

La giornata di lunedì 9 febbraio è stata, quindi, complessivamente spesa per una buona causa, anche se non sono mancate argomentazioni e parole d’ordine che rischiano di aumentare la confusione che purtroppo regna sovrana.

 

Tra le altre, quelle più strane sono contenute nel “manifesto per rinascita  della sanità” lanciato su un giornale nazionale da 9 eminenti luminari titolato, senza eccessiva fantasia, “Fuori i partiti, malati al primo posto”, sottotitolato “Migliorare il sistema senza aumentare le spese”,  nel quale si sostiene l’esigenza di “dare ai medici un ruolo di protagonisti”.

 

Cominciamo da quest’ultima frase, alla quale aveva dato risalto il ministro Sirchia, in una lettera pubblicata il giorno prima dallo stesso giornale, titolata “Io, ministro, sto coi medici: troppo potere ai manager”.

 

Sirchia non sa

 

Persistendo nell’assoluta incapacità di capire dove si trova e di sapere il ruolo che e come esercita, e quindi non avendo compreso che lo sciopero era in primo luogo diretto contro di lui e contro il governo di cui fa parte, Sirchia si è lanciato, come il titolo fa capire, in una sconclusionata analisi nella quale ad ogni frase corrisponde la solita zappata sui piedi suoi e, purtroppo, del Servizio Sanitario Nazionale.

 

Nell’articolo, Sirchia dapprima critica il concetto thatcheriano con le aziende governate da un direttore generale totipotente nominato dalla Regione che ha portato ad “alcuni effetti negativi come il rischio d’ingerenza della politica nella sanità pubblica”, la marginalizzazione dei medici e la legge sul federalismo, e nella seconda parte articola alcune generiche proposte.

 

Fermiamoci un attimo per ragionare sulla cosiddetta “marginalizzazione dei medici” che suona francamente paradossale rispetto all’attuale situazione che vede la classe medica fortemente presente in molti posti di comando.

 

Il Ministero della salute è retto da un medico, il 50 per cento circa delle aziende sanitarie (ospedaliere o territoriali) ha come direttori generali dei medici affiancati da direttore sanitario naturalmente medico che il ministro Sirchia  in un recente bislacco disegno di legge vorrebbe assistito o sostituito da un coordinatore clinico. Solo le Regioni sembrano avere pochi assessori medici.

 

Se questo è l’esempio della marginalizzazione, c’è da credere che molte categorie vorrebbero essere così marginalizzate.

 

Se invece il problema riguarda l’esercizio della professione per la quale il medico è formato, beh allora la questione è molto più complessa e va affrontata, tenendo conto, ad esempio, del fatto che il medico possiede la qualifica e lo status di dirigente.

 

Vanno anche considerati i notevoli e molte volte non azzeccati cambiamenti introdotti nel Servizio Sanitario Nazionale come il pagamento a tariffa (non a Drg come erroneamente indicato) che ha alimentato un generale atteggiamento opportunistico delle aziende sanitarie e specialmente delle case di cura private.

 

Queste ultime sono partite alla caccia dei migliori medici pubblici, in particolare chirurghi e ortopedici, assoldandoli a suon di quattrini per produrre prestazioni programmate, quindi non soggetto all’urgenza ed emergenza, il più possibile semplici e remunerative, pagate peraltro dal Servizio Sanitario Nazionale.

 

La gravità del fenomeno non appare immediatamente ma è assolutamente indubbia l’evidenza dei guasti che esso produce.

 

L’ospedale pubblico su cui giustamente preme il carico assistenziale più grave, immediato e urgente si trova ad operare con un’organizzazione alla quale sono  stati sottratti valenti professionisti che ne garantivano prestazioni qualificate, trasmettendo ad altri più giovani ottimi insegnamenti.

 

Quindi, il circuito virtuoso (formazione universitaria, inserimento nel servizio sanitario pubblico, tirocinio professionale, maturità professionale, aggiornamento, insegnamento professionale) è spezzato proprio nel momento in cui può produrre il massimo del beneficio.

 

Non è necessario essere dei grandi esperti per capire che se non si pone rimedio ad un tale andazzo, la dequalificazione professionale dei medici e, quindi, la decadenza del servizio pubblico è alle porte.

 

Le proposte dei nove

 

Veniamo ora al “manifesto” di cui si parlava all’inizio, che credo abbia incuriosito ed attratto molte persone, se non altro perché firmato da medici (universitari e non) e farmacologi, alcuni molto noti anche come “opinionisti sanitari” in difesa del servizio sanitario pubblico.

 

Spiace constatare l’assoluta vaghezza del documento, parziale in termini di politica sanitaria e impastato oltretutto di un fastidioso populismo, nel quale è assente una qualsiasi vera proposta.

 

I direttori generali

 

Si prenda, ad esempio, la critica sulla mancanza di competenza dei direttori generali delle aziende sanitarie, nominati “solo se vicini a questo o a quel partito” che a loro volta nominano primari ospedalieri, ecc. ecc. affermazione che ha permesso all’opinionista Giovanni Belardelli di sparare autentiche reiterate stupidaggini sul “Corriere della sera” di martedì 10 febbraio.

 

Giova ricordare che la legge impone che il direttore generale, per essere nominato, deve essere in possesso di due requisiti fondamentali: essere laureato e aver diretto per almeno cinque anni un’azienda privata o una struttura pubblica equiparabile.

 

Basterebbe questo per dire che certamente il direttore può essere raccomandato ma all’interno di un quadro che dovrebbe garantirne una certa competenza.  

     

Dai luminari, quindi, sapendo che un servizio pubblico – lo dice la parola stessa - deve essere amministrato pubblicamente, mi sarei aspettato una feroce critica all’attuale classe politica culturalmente ignorante e socialmente inadeguata a governare il “Diritto dei diritti” quale è la tutela della salute, e non un generico scimmiottamento sirchiano sulla necessità di “limitare i poteri del direttore generale” attraverso la valorizzazione del collegio di direzione e della direzione sanitaria (sic), senza bisogno di tornare all’abominevole (NdA) Consiglio di Amministrazione, che invece a parere personale è la soluzione migliore, anche per riorganizzare una rete di amministratori pubblici in grado di ragionare di politica sanitaria.

 

Le liste d’attesa

 

Con molta circospezione il documento affronta anche lo scandalo – perché ormai lo si può considerare tale – delle liste d’attesa che “andrebbero gradualmente eliminate, ma senza aumentare l’offerta di prestazioni” bensì “risparmiando su prestazioni e terapie non efficaci e quindi non necessarie”.

 

Su quest’ultima affermazione sarebbe interessante venisse fornito un preciso elenco di queste terapie non necessarie in modo da tagliare la testa la toro una volta per tutte, ma al proposito nutro forti dubbi.

 

Stranamente, l’attività “libero professionale intramoenia”, che tutti sanno pesa in modo considerevole sul capitolo liste d’attesa, nel documento fa parte del punto “riorganizzare il lavoro”  ed è trattata in modo moralistico (non deve succedere che all’interno della stessa struttura, chi ha possibilità economiche possa essere curato prima e meglio di chi non le ha) e non corrispondente alla realtà. La negazione del diritto alla tutela della salute insita in liste d’attesa vergognosamente lunghe non ha, oggi, origini economiche ma colpisce indiscriminatamente tutti i cittadini che, silenziosamente, subiscono lo stesso trattamento: se vuole la prestazione pubblica ci vogliono ics mesi, altrimenti in libera professione due tre giorni al massimo. Tutto questo sancito da una legge.

 

Ospedali come imprese  

 

Nel punto “liste d’attesa” è inserita, a sorpresa, la proposta di riconoscere agli ospedali (pubblici) lo status di “imprese”, come recitano Costituzione e codice civile, per permettere agli stessi di sottrarsi “ai vincoli e alle procedure di oggi consente(ndo) di organizzare l’attività ispirandosi ai principi di efficienza, tempestività e flessibilità che caratterizzano le organizzazioni private.”

 

Pure essendo convinto della positività dei principi citati, spiace anche in questo caso rilevare la superficialità dell’assunto, che peraltro si scontra con molti altri contenuti nel documento.

 

Intanto è assurdo paragonare l’ambito pubblico con l’ambito privato, anche in sanità. Gli obiettivi dell’uno non combaciano con quelli dell’altro. Il privato per sua natura è efficiente nella ricerca del profitto e a tale scopo incentiva il consumo dei suoi prodotti presso una clientela, il servizio pubblico deve essere efficace e tempestivo nella copertura sociosanitaria di tutti i cittadini.

 

In questi anni, poi, si è proceduto in quello che è stato definito snellimento legislativo e normativo (le nomine di primari, gli appalti, ecc.) inteso a conseguire gli obiettivi indicati dal documento ma i risultati sono stati deludenti se non peggio. La cosiddetta “aziendalizzazione” (bruttissimo e abusato termine mutuato dal privato) ha alimentato gli oscuri e sconcertanti comportamenti amministrativi in parte citati dai nove.

 

Infine, lasciando stare la parzialità della proposta (perché solo gli ospedali e le Ulss o Asl?), dovrebbe essere infine chiarito come si pensa di attuare, con queste premesse le evocate “integrazione sociosanitaria” e “organizzazione in rete”.   

 

Riflessioni

 

Si potrebbe allargare la discussione ad altre questioni, per esempio alla cosiddetta “devoluzione” o al finanziamento del servizio sociosanitario (compresa la ridicola diatriba tra Governo e Regioni sugli immigrati). Lo faremo.

 

Per oggi accontentiamoci di constatare che la giornata di sciopero del 9 febbraio del personale dirigente medico e non medico, a cui probabilmente ne seguiranno altre, ha rianimato episodicamente un dibattito purtroppo ultimamente assente o alimentato solamente da prese di posizione di settore o di categoria.

 

Specialmente da parte delle istituzioni, depositarie delle responsabilità e delle decisioni, e delle forze politiche, manca, ribadisco, la forte tensione ideale unita alla progettualità indispensabili per affrontare il futuro di un servizio pubblico nazionale ed europeo equo, tempestivo e solidale con e per tutti i cittadini.   

 

                                                                                         

                                                                ROBERTO BUTTURA